Si dice che «le case muoiono quando i loro abitanti se ne vanno». Questa frase mi risuonava in testa in continuazione mentre osservavo ogni dettaglio della mia casa, nelle ultime ore prima della mia nuova partenza forzata. Sì, sono stata di nuovo sradicata e costretta a lasciare Gaza, la città che amo così tanto.
Quello che succede qui non è una migrazione ma uno spostamento forzato. Quello che ho visto, che abbiamo visto, non è una scelta. È uno sradicamento sotto i bombardamenti e le esplosioni, nell’odore del sangue. È la reazione a un mondo che ha perso fiducia nel valore della vita umana, permettendo a questa follia di perdurare senza fine.
Ho lasciato la mia casa il 12 settembre, solo pochi giorni dopo gli ordini di evacuazione per l’intera città di Gaza impartiti dalle forze di difesa israeliane. Da mesi incombevano minacce di un’occupazione. Non ci credevo davvero. Non pensavo che potesse succedere dopo essere tornata nella mia città, dopo più di un anno e mezzo di spostamenti, di morte e di uccisioni e di ogni forma immaginabile di distruzione. Dopo essere tornata a Gaza il 30 gennaio, avevo sentito calore, un senso di appartenenza, amore, anche in mezzo alle devastazioni, alle uccisioni, alla fame e alla voce onnipresente della morte. Trovavamo conforto nell’essere a casa. Pensavo di poter sopportare tutto perché ero nella mia città. Non mi sarei lamentata, avrei resistito.
La mattina del 9 settembre mi sono svegliata al suono di dozzine di chiamate. Sapevo che era successa una catastrofe. Un pensiero terribile mi è venuto subito in mente: l’evacuazione della città di Gaza. Ed era proprio così. Ho passato ore, giorni, accompagnata da questo pensiero insostenibile: dovevo restare e morire sulla mia terra, con l’ultimo respiro pieno della polvere della mia casa che crolla? Oppure partire, nell’interesse dei miei figli? Un amico mi ha detto: «Riempi i tuoi occhi delle immagini di Gaza, forse non la vedrai mai più.» Le sue parole mi hanno trafitta come una lama e ho cominciato a osservare tutto come fosse l’ultima volta.
Non riuscivo a decidermi. Ho detto a tutti quelli che mi stavano intorno che avevo bisogno di riflettere; anche per loro era lo stesso. Come potevo abbandonare la mia casa, la mia terra, dopo avere già avuto il cuore spezzato, pensando solo a tornare? I bombardamenti aerei si intensificavano. Le torri residenziali crollavano intorno a noi; torri a noi care, costruite sotto i nostri occhi, dove siamo cresciuti, piene di ricordi: case, scuole, palestre. E a ogni torre che crollava, era la nostra sicurezza a frantumarsi, i nostri cuori a cadere in rovina insieme a essa.
«Ho cercato di imprimere tutto nella mia mente.»
Sono uscita per percorrere le strade che amo, per vederne ogni angolo un’ultima volta. Ho guardato la mia casa, ognuna delle sue stanze. Mi sono aggrappata a ogni dettaglio della mia amata Gaza: le sue notti e i suoi giorni, il suo sole e la sua luna, la sua bellezza e la sua distruzione, il suo odore e il suo calore, la sua sicurezza e il suo terrore. Ho cercato di imprimere tutto nella mia mente. Ho lasciato scivolare le dita lungo i muri e le porte, tra le pieghe del mio letto, sugli alberi del cortile, sui muri del mio quartiere. Sono andata nei miei negozi preferiti, anche sotto i bombardamenti e nella paura. Sono partita portando con me ciò che potevo nella memoria e ho preso coscienza che una parte di me sarebbe rimasta: legata ai muri, ai marciapiedi, all’aria della città. Quello che non potevo portare con me? La mia gioia, i miei ricordi d’infanzia, le risate, i volti di chi amo, persino l’eco della mia presenza. Sono partita con il volto devastato da un lutto indescrivibile.
Lo spostamento è una perdita ripetuta, la più grande delle perdite, una morte rinviata che ritorna ogni volta. I bombardamenti e la paura riempiono l’anima: la paura di altre perdite, la paura per i miei figli, il dolore per ciò che sono costretti a vivere. Le bombe fanno tremare il suolo, fanno tremare fino al cuore. E sotto il tuono delle esplosioni, sono stata costretta a partire, con i miei figli, con la mia famiglia. Ancora una volta.
Ma anche fuggire da qui è diventato un lusso che la maggior parte dei Gazawi non può permettersi. Essere sfollati significa cercare un riparo o anche solo una tenda per giorni, trovare un trasporto da Gaza verso sud per attraversare lunghe strade dissestate, trovare denaro in una realtà in cui i prezzi sono diventati una follia. Mi sono chiesta dove sarebbero andate più di un milione di persone? Verso un sud già distrutto.
Medici del Mondo ha portato un aiuto prezioso alle sue équipe ottenendo un terreno per installare tende e aiutare ad affrontare lo sfollamento. Una vera ancora di salvezza per i colleghi. Ma che ne è del resto della popolazione? Di coloro che non hanno nessuno che si preoccupi di loro, lasciati a se stessi per trovare il minimo indispensabile: un riparo e la dignità. Devo di nuovo fare la mia valigia: il mio “sacco dello sfollamento”. Si può trasportare una casa in un sacco o solo nel cuore? Come decidere in poche ore cosa prendere, cosa è essenziale, cosa lasciare dietro di sé?
Ho raccolto vestiti estivi e invernali. Le esperienze passate mi hanno insegnato l’agonia di non avere abbastanza caldo. Ho detto ai miei figli di prendere ciascuno una borsa con ciò che per loro è importante. Il mio cuore si è spezzato quando mi hanno chiesto: «Devo prendere il mio giocattolo? Le mie carte? Il mio salvadanaio? Le mie foto? Il mio peluche di Mickey?» Ho detto loro di prendere ciò che amano di più. Io rinuncerò a ciò che amo di più per voi.
Avevo dovuto scegliere anche tra le cose che amavo: i regali dei miei amici deceduti, gli album fotografici, i ricordi della mia laurea, del compleanno della mia famiglia, i doni che portano ancora l’odore di mio padre defunto. Ho dovuto scegliere, perché non c’è mai abbastanza spazio, nel luogo in cui si è sfollati, per tutto ciò che sta nel cuore.
Il prezzo brutale da pagare per essere espulsi, costretti a ritrovarsi per strada.
Ho visto la sofferenza delle altre persone durante lo sfollamento. Se vuoi fuggire, serve un’auto: il trasporto costa quasi 2.000 dollari. Affittare un pezzo di terra per piantare la tenda: circa 500 dollari al mese. E la tenda stessa? Più di 1.000 dollari, se riesci a trovarne una. Se hai la fortuna di trovare un piccolo appartamento, devi mettere in conto 2.000 dollari al mese, oltre alla costruzione del bagno, all’acquisto dell’acqua e di tutto il resto.
Come può la popolazione di Gaza pagare queste somme dopo due anni di guerra che hanno distrutto le loro vite e prosciugato i loro risparmi? È uno dei pagamenti più assurdi al mondo: il prezzo brutale da pagare per essere espulsi, costretti a ritrovarsi per strada. L’alternativa? Essere assediati, uccisi, morire insieme ai propri figli. Tutto questo avviene sotto gli occhi del mondo. Spettatori. Osservatori di questi crimini in ognuna delle loro fasi. In tutto il loro dolore. In diretta televisiva. Aggrappandosi al silenzio.
Abbiamo preso le nostre cose e siamo partiti. Ho camminato per ore sotto il sole, dando l’addio a ogni angolo della mia città, respirando la sua aria a pieni polmoni. La memoria mi aiuterà a recuperare ciò che è andato perduto? Non lo so. Quel giorno ho capito davvero che un cuore può spezzarsi.
«Perché dobbiamo dire addio a tutto ciò che amiamo?»
Siamo arrivati a Deir al-Balah, nel centro della Striscia di Gaza. Ancora una volta sfollati, infranti. Mi sono sentita staccata dalla realtà, come se mi vedessi dall’esterno. Non riuscivo ad accettare che tutto ciò si ripetesse. Ho visto i miei colleghi. Dopo due giorni a piangere senza sosta, sono andata al lavoro. Li ho visti e mi sono accasciata, piangendo con tutto il cuore. Per giorni non riuscivo a fermare
le lacrime. La tristezza è così profonda. Il mio cuore è spezzato. Vivo nell’angoscia per coloro che sono rimasti a Gaza sotto i bombardamenti intensi. Li chiamo giorno e notte, terrorizzata per loro.
Medici del Mondo ha dovuto sospendere le attività delle nostre cliniche nella città di Gaza: troppo pericoloso, troppe offensive aeree e terrestri. Ci sentiamo in colpa: apparteniamo a questa gente, a questa terra, a coloro che aiutiamo. Vorremmo continuare a sostenerli. Ma come, quando la nostra clinica nella città di Gaza è quasi stata completamente distrutta dai bombardamenti?
Porto dentro di me una rabbia profonda, un senso di oppressione e di dolore. Perché dobbiamo dire addio a tutto ciò che amiamo per sopravvivere? Perché passare due anni sfollati, terrorizzati, affamati, privati, abbandonati? Perché veniamo spogliati di tutte le cose essenziali? Perché la popolazione viene scaraventata in strada, senza riparo, senza mezzi per proteggersi dal caldo estivo, dal freddo invernale? Perché più di 50.000 bambini sono orfani? Perché ne perdiamo altri? Perché più di 65.000 persone sono morte? Perché così tante persone sono sotto le macerie o risultano disperse? Senza alcun limite. Il mondo ci vede almeno? Ci sente? Abbiamo ancora detto addio a Gaza. Ti ho detto addio, mia cara Gaza, il mio tutto, senza sapere se ti rivedrò un giorno. Ho lasciato Gaza ma Gaza non mi lascerà mai.
Proprio come Ibrahim Touqan nel suo poema Mawtini («La mia patria»), mi interrogo su Gaza: «Ti rivedrò? ti rivedrò? In pace e prospera, vittoriosa e onorata? Ti rivedrò, nella tua grandezza? Raggiungere le stelle; o patria mia, o patria mia.»
Nour Z. Jarada, responsabile della salute mentale a Gaza per Medici del Mondo
Questa testimonianza è stata pubblicata il 30 settembre sul sito del quotidiano Libération)