22.10.2025 News

Diario di Nour, la nostra psicologa a Gaza

"Il dolore di una madre incapace di nutrire, proteggere o persino piangere il proprio figlio è più profondo di qualsiasi bomba"

Sono passati due anni da quando il cielo si è squarciato sopra le nostre vite, dividendo tutto in un "prima" e un "dopo". Due anni di paura costante, fiumi di sangue, e dolore incessante per la perdita delle persone amate. Due anni di case distrutte, corpi sparsi, morti e dispersi, interi quartieri ridotti in macerie. Due anni di sfollamenti forzati, fughe senza fine e della perdita della patria che un tempo chiamavamo casa. Due anni di ordini di evacuazione e di cosiddette “zone sicure” che sicure non lo sono mai state. Due anni a sentire il ronzio di droni e jet da combattimento sopra le nostre teste, a dormire tra i tremori della terra sotto le bombe incessanti, con la fame che ci rode lo stomaco e gli occhi dei bambini svuotati dalla paura e dalla fame. Due anni senza acqua né elettricità, con ospedali distrutti o deliberatamente presi di mira, strade bloccate dalle macerie, mercati vuoti, scuole chiuse, parchi scomparsi; la vita ridotta a mera sopravvivenza tra le rovine. Due anni passati a seguire notizie che trafiggono l’anima, a guardare bambini spaventati sognare una vita che non esiste più.

Mai avrei immaginato di essere ancora viva in questo momento, ancora con i miei figli tra le braccia mentre il mondo intorno a noi crolla. Ho perso tanto, eppure il mio cuore continua a soffrire vedendo il dolore del mio popolo, della mia città.

La nostra città, Gaza, è crollata molte volte, e ad ogni crollo, i nostri cuori si spezzano con lei. Seguo le notizie con il cuore tremante, e mio figlio mi guarda con le lacrime agli occhi, sussurrando: «Sembra che non torneremo mai, che non rivedremo mai Gaza.»

E mi chiedo: «Perché tutto questo è stato scritto per noi? Perché i nostri figli devono conoscere paura, fame e morte prima ancora di capire cosa sia l’infanzia? Perché abbiamo perso migliaia di bambini, numeri che non riflettono nemmeno la realtà, perché gli ospedali non riescono a registrare tutte le perdite?».

Il dolore di una madre

Ho affrontato situazioni che non avrei mai potuto immaginare: fuggire con i miei figli da un posto all’altro, coprire loro gli occhi con le mani per evitare che vedano sangue e corpi dilaniati, insegnare loro la pazienza e la resilienza, anche quando io stessa non so più come resistere.

Come posso insegnare loro ad affrontare la perdita di parenti, la distruzione delle scuole, la sparizione dei parchi giochi? Come posso consolarli quando il mio stesso cuore è a pezzi? Ogni mattina li abbraccio prima di uscire per andare a lavorare, temendo di non rivederli più, lasciando loro istruzioni su come prendersi cura l’uno dell’altro, pregando per la loro sicurezza in un mondo che sembra volerci togliere tutto.

Ma il mio dolore non è unico. Le madri in tutta Gaza vivono orrori che non si possono descrivere. Perdono mariti, figli, case. Soffrono la fame, spesso rinunciando al proprio cibo perché almeno il figlio più debole possa sopravvivere. Alcune riescono finalmente ad avere un bambino dopo anni di attesa e difficoltà, solo per vederlo morire davanti ai loro occhi sotto un raid aereo. Le donne incinte affrontano rischi inimmaginabili, partoriscono senza ospedali, senza medicine, senza anestesia; molte subiscono cesarei senza un’adeguata anestesia. Gli aborti spontanei sono aumentati di oltre il 300% durante questa guerra. E anche il rito più semplice del lutto – piangere un figlio perduto – è stato loro negato.

La vita è diventata un calcolo quotidiano: come proteggere la vita fragile dei nostri figli, quando ogni istante è un pericolo? E come sopravvive una madre al dolore insopportabile di perdere il figlio che ha lottato per avere?

Gran parte della popolazione di Gaza è stata costretta a fuggire, cercando rifugio in scuole, ospedali, case di parenti, tende improvvisate. Ho sentito storie di donne che hanno partorito in rifugi sovraffollati, senza cibo, senza cure, senza elettricità. Ogni giorno nascono bambini troppo deboli per sopravvivere.

“Intrappolati nella paura, nella fame, nella disperazione”

Mi si spezza il cuore sapendo che a Gaza nascono circa 130 bambini al giorno, molti in tende o rifugi sovraffollati, da madri stremate dalla fame, dall’esaurimento e dal trauma psicologico. Questi bambini nascono fragili, esposti a rischi gravi per la salute. A volte le incubatrici non funzionano e l’assistenza medica è impossibile: ai pochi operatori sanitari rimasti è richiesto di fare miracoli in condizioni disumane.

Ho visto madri stringere figli incapaci di allattare, tenendoli stretti al petto come se il loro calore potesse bastare a tenerli in vita. Una madre mi ha detto: «Non mangiavo da giorni, e il mio bambino piangeva per un latte che non potevo dargli». Tutto questo avviene sotto il costante rombo di droni e caccia, promemoria assordante della fragilità della vita. Il dolore di una madre incapace di nutrire, proteggere o piangere il proprio figlio è più profondo di qualsiasi bomba.

A Gaza, la guerra non si limita a uccidere: consuma lentamente la vita, lasciando madri e figli intrappolati nella paura, nella fame, nella disperazione. Gli ospedali sono distrutti, le scorte mediche si esauriscono, i medici operano al buio, spesso costretti a scelte impossibili pur di salvare una vita.

I decessi materni e infantili non sono numeri: sono realtà. Una madre che guarda il suo neonato lottare per respirare, un bambino perduto in circostanze che nessun genitore dovrebbe mai affrontare.

Maternità, resilienza e resistenza

Eppure, anche in mezzo a quest’orrore, il legame tra madre e figlio resiste: integro, ribelle. Le madri stringono i loro figli come se tenessero in braccio il futuro stesso sussurrano storie, preghiere, parole dolci per calmare cuori tremanti. Offrono calore quando le coperte mancano, protezione quando il mondo non ne offre, coraggio quando ogni istinto dice di crollare.

La fame, l’esaurimento, la paura sono diventati parte della quotidianità, eppure le madri resistono, trovano forza nel loro amore, insegnano resilienza ai figli in un mondo che ha cancellato la sicurezza. Il trauma materno qui non è più teoria: è visibile in ogni mano che trema, in ogni occhio colmo di lacrime, in ogni gesto silenzioso d’amore che tiene in vita.

I bambini arrivano alle cliniche con lo stomaco vuoto e gli occhi spenti, alla ricerca anche di un solo integratore. Le madri li osservano impotenti, piene di senso di colpa mentre lottano per difendere i figli dalla disperazione. Nei rifugi affollati, nelle tende improvvisate, le donne avvolgono i loro figli in ciò che trovano, sussurrano ninne nanne per mascherare la paura, imprimono calore e speranza in corpi fragili. Ogni gesto – sfamare, asciugare una lacrima, tenere la mano – è una battaglia contro il peso della guerra.

Dopo due anni di guerra, vedo la maternità a Gaza come una forma evidente di resilienza. Ogni pasto condiviso, ogni lacrima asciugata, ogni battito che proteggiamo è un atto di resistenza. Anche in assenza di speranza, le madri continuano a preservare la vita, un respiro alla volta. Le ninne nanne che cantiamo, le mani che stringiamo, i pasti che troviamo, le preghiere che sussurriamo: queste sono le nostre armi, piccole ma vitali, in un mondo che vuole distruggerle.

Ora che il secondo anno di guerra giunge al termine, mi tornano in mente le parole di Amal Dunqul:

«Non riconciliarti...
Anche se ti toglie il sonno, il grido del rimorso.
E ricorda...
Se il tuo cuore è per le donne in nero,
E per i loro figli a cui è stato rubato il sorriso.»

Questi versi risuonano in ogni angolo di Gaza, in ogni carezza di madre, in ogni bambino che si aggrappa tremante a un po’ di calore. Sono un promemoria: non possiamo fare pace con la crudeltà che ci circonda, con la distruzione delle case, con la perdita dei nostri cari, con la sofferenza silenziosa dei nostri bambini.

E mi chiedo ancora, mentre l’oscurità scende sulla nostra città: I nostri figli vedranno mai un cielo senza droni? Correranno mai per le strade senza paura? Noi madri riusciremo mai a riposare anche solo per un attimo, sapendo di aver superato due anni di terrore senza fine?

Non ci sono risposte. Solo domande.

— Nour Z. Jarada, responsabile della salute mentale a Gaza per Medici del Mondo