L'aborto non sicuro è una delle principali cause di mortalità materna a livello internazionale. Dei circa 121 milioni di gravidanze indesiderate che si verificano ogni anno nel mondo, il 60% si conclude con un aborto. Di questi, il 45% avviene in condizioni non sicure, a causa dell'accesso limitato al servizio. L’OMS stima 39.000 decessi all’anno e 7 milioni di persone costrette all’ospedalizzazione. Inoltre, come rileva lo studio Turnaway - l'analisi sull’interruzione di gravidanza condotta da Advancing New Standards in Reproductive Health (ANSIRH) presso l'Università della California, San Francisco -, le difficoltà nell'accesso all'aborto e la negazione di questo diritto fondamentale hanno importanti ripercussioni sulla salute mentale: al contrario, le donne che hanno interrotto una gravidanza indesiderata, nella maggior parte dei casi,non provano rimpianto, dolore né tantomeno disturbo da stress post-traumatico, masollievo, con ben il 99% delle donne che ha dichiarato che l'interruzione di gravidanza è stata la decisione giusta.
L’Italia, purtroppo, si ritrova ancora molto indietro rispetto agli altri Paesi europei. Una delle questioni più rilevanti è l’obiezione di coscienza. Secondo il Ministero della Salute, nel 2022 in Italia si è dichiarato obiettore il 60,7% dei ginecologi e delle ginecologhe (con picchi del 90,9% in Molise, 81,5% in Sicilia e 79,2% in Basilicata), il 37,2% degli anestesisti e delle anestesiste e il 32,1% del personale non medico. In Italia effettuano IVG solo il 61,1% delle strutture con reparto di ostetricia e ginecologia (nel 2020 erano il 63,8%), con forti differenze tra le regioni. Sono disponibili 2,9 punti IVG ogni 100.000 donne in età fertile, con i valori più bassi in Campania (1,6), Molise e nella provincia autonoma di Bolzano (1,8). La fotografia del Ministero, però, non è esaustiva. Dalla mappatura del 2022 del progetto Mai Dati, era ad esempio emerso che almeno 31 strutture sanitarie (24 ospedali e 7 consultori) presentavano il 100% di obiettori di coscienza per figure mediche (ginecologhe/i, anestesiste/i) e infermieristiche. Quasi 50 le strutture con una percentuale superiore al 90% e oltre 80 con un tasso di obiezione superiore all’80%.
Altro sintomo di una rete sanitaria non adeguata a garantire l’accesso a cure abortive è il numero di Consultori Familiari, primo punto di accesso e informazione per indirizzare nel percorso per l’IVG, istituiti 50 anni fa con la legge 405/1975. Nel 2022 i consultori pubblici risultano scesi in numero assoluto rispetto al 2021 da 1871 a 1819. Siamo lontani dalla proporzione di 1 ogni 20 mila abitanti raccomandata dalla legge: la media nazionale è di 0,6 ogni 20mila abitanti (ossia 1 consultorio ogni 33.000 abitanti circa). E quando presenti, le carenze di personale ne consentono l’apertura solo in alcuni orari e giorni della settimana. Nonostante le difficoltà i consultori rimangono un presidio fondamentale nell’accesso ai servizi per l’IVG. Secondo l’ultima relazione annuale del Ministero della Salute presentata alla fine del 2024 e relativa ai dati del 2022, la percentuale maggiore di certificati per l’IVG sono stati rilasciati dai consultori familiari (43,9%), seguiti dai servizi ostetrico-ginecologici dei presidi sanitari (34,3%) e dal/dalla medico/a di fiducia (19,6%). La situazione non è comunque uniforme in tutto il Paese. La percentuale di rilascio dei documenti nei consultori sale nella Provincia Autonoma di Trento (76,6%) e in Emilia-Romagna (72,9%), Marche (66,3%), Piemonte (62,5%) e Umbria (61,4%). Le percentuali sono più basse nell’Italia meridionale (29,1%) ed insulare (19,2%). Nel 2022 i consultori familiari che hanno dichiarato di effettuare counselling per l’IVG e di rilasciare certificati corrispondono al 76,6% del totale (l’anno prima erano il 68,4%).
Secondo la relazione del Ministero della Salute, in Italia nel 2022 il 74,3% delle IVG sono state considerate non urgenti, costringendo più di 48.000 persone ad attendere 7 giorni dal rilascio del certificato. Aumenta il tempo di attesa tra rilascio del certificato e procedura: il 77,7% (vs 78,4% del 2021) attende fino a 14 giorni, il 13,8% (vs 13,2%) tra i 15 e i 21 giorni e il 5% (vs 4,6%) tra i 22 e i 28 giorni. L’89,9% delle procedure è stato effettuato in un istituto di cura pubblico, mentre solo il 5,6% è stato effettuato presso un ambulatorio pubblico e solo lo 0,6% presso un consultorio.
In base ai dati del Ministero della Salute pubblicati nel 2024, in Italia nel 2022 solo il 52% delle IVG sono state effettuate con la procedura farmacologica, contro il 79% di Francia, l’86% dell’Inghilterra e il 90% dei Paesi Scandinavi. Al momento solo tre regioni (Emilia-Romagna, Toscana e Lazio) prevedono la somministrazione della RU486 nei consultori, come previsto dalle linee di indirizzo ministeriali del 2020. Il progetto dell’ISS ha poi confermato che il ricorso alla RU486 è fortemente disomogeneo sul territorio nazionale: nel 2023, la Provincia Autonoma di Trento e le Regioni Emilia-Romagna, Piemonte, Basilicata, Calabria, Liguria, Molise hanno offerto l’aborto farmacologico tra il 72% e l’82%, mentre in Veneto, Sardegna, Abruzzo, Campania, P.A. Bolzano, Lombardia, Sicilia e Marche la proporzione era inferiore al 49%. Nello stesso anno l’accesso alla RU486 negli ambulatori e nei consultori familiari aveva riguardato il 6,6% del totale delle IVG, ed era stata offerta solo in Toscana, Lazio ed Emilia-Romagna. Oltre che meno invasivo, il metodo farmacologico comporterebbe un grosso risparmio per la sanità: secondo le stime dell’Associazione Luca Coscioni, considerando i rimborsi che la Regione dà alle varie aziende sanitarie e alle varie strutture per le diverse procedure, in media il rimborso per una IVG chirurgica è di circa 1.100 euro, mentre per quella farmacologica con il ricovero è di circa 209 euro ad accesso (418 euro in totale, considerato che gli accessi devono essere almeno due). Per quella farmacologica in regime ambulatoriale è di 36 euro a farmaco, quindi circa 72 euro per le due pillole.